Niente “reddito” e investimenti senza un nuovo personale PA

Francesco Verbaro

articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 15 ottobre 2018

La manovra in arrivo punta tutte le sue carte sulla ripresa degli investimenti pubblici e sulla spinta ai consumi interni dal reddito di cittadinanza. Ma senza un drastico cambio di rotta nella gestione del personale della PA entrambi i motori rischiano di imballarsi ancor prima di partire.
 
Una delle differenze più evidenti tra settore pubblico e privato è infatti nella gestione e valorizzazione del capitale umano. È stato scritto più volte come la Pa non curi le risorse umane, sia nel reclutamento sia nella gestione, e come questo pregiudichi l’attuazione delle politiche. Il cattivo reclutamento è dato dalla mancata attenzione ai fabbisogni professionali presenti e futuri, e questa discende dall’assenza di una visione delle funzioni della Pa. Diverse le patologie: scarsa considerazione delle nuove competenze, mantenimento dei vecchi profili e reclutamento con “stabilizzazioni” dopo anni di spreco di competenze. Sui concorsi, poi, le procedure sono vecchie e lunghe. L’effetto è di non attrarre il miglior capitale umano, e di demotivarlo fin dal suo ingresso. Sulla gestione la situazione è ancora peggiore: inquadramenti vecchi, carriere rigide, utilizzo disincentivante del trattamento accessorio. Sono fenomeni noti, ma per la politica appare troppo costoso cambiare direzione. A ciò si aggiunge il drammatico invecchiamento della forza lavoro, che conferma la disattenzione sostanziale, inversamente proporzionale a quella legislativa, nei confronti della Pa. E al di là del dato anagrafico, i risultati sarebbero ancora più scoraggianti se avessimo dati su profili e competenze.
 
Ma mentre nel privato si lavora su come reclutare e trattenere il miglior capitale umano, sull’aggiornamento continuo, sulle organizzazioni dell’apprendimento, sulle competenze trasversali e sull’invecchiamento attivo, nel pubblico i dipendenti una volta reclutati vengono abbandonati in attesa della pensione. Tra tutti gli adempimenti previsti per le Pa, nel 2013 è stato abrogato l’obbligo (già poco rispettato; articolo 7-bis del Dlgs 165/2001) di predisporre ogni anno un piano di formazione del personale tenendo conto dei fabbisogni, delle competenze necessarie in relazione agli obiettivi, della programmazione delle assunzioni e delle innovazioni normative e tecnologiche. Un’abrogazione avvenuta nel silenzio di dirigenti e sindacati. Ancora più imbarazzante registrare come tra tutte le norme sulla spending sul personale degli anni della crisi fiscale 2010-2011, l’unica rimasta in vigore è quella che limita la spesa per la formazione al 50% di quella sostenuta nel 2009 (articolo 6, comma 13, Dl 78/2010). Quale riqualificazione allora, quale ridisegno dello Stato e quale rivoluzione digitale? Nel privato da anni ci si interroga sulle «new skills for new jobs», mentre nel pubblico tutto questo è una stranezza per esterofili: a che serve il capitale umano nella Pa, visto che è la legge ciò che «muove il sole e l’altre stelle”. Ma così mancherà la copertura più importante per le tante politiche previste nella NaDef. Come gestire il reddito di cittadinanza, come rilanciare i centri per l’impiego, come incrementare gli investimenti, come spendere meglio i fondi Ue, come manutenere le infrastrutture, come accelerare sulla digitalizzazione e come accrescere la sicurezza senza un capitale umano adeguato? Nelle leggi ci si preoccupa della copertura finanziaria, ma non di quella gestionale e amministrativa. In questo modo molto rimarrà sulla carta, sotto il crescente fastidio della popolazione e la crescente sfiducia verso la democrazia.