Il D.Lgs. 150/2009 (riforma Brunetta) spinse l’acceleratore su valutazione e meritocrazia, ma subito dopo la manovra del luglio 2010 pose limiti economici alla contrattazione e limitò all’aspetto giuridico la valenza delle progressioni di carriera. Di fatto si annullò la leva incentivante nel suo risvolto economico e si creò inoltre nel pubblico impiego un clima non certo favorevole ad un maggior impegno.
Nelle intenzioni, il D.Lgs. 150/2009 si proponeva di portare a compimento il processo di rinnovamento del lavoro pubblico (cui dette inizio il D.Lgs. 29 nel lontano 1993) quantomeno in materia di organizzazione e di modernizzazione dei sistemi di valutazione dell’azione amministrativa e di incentivazione delle prestazioni lavorative, ispirandosi a metodologie ampiamente adottate nel settore privato. Mentre, al contrario, la parziale rilegificazione del rapporto di lavoro pubblico operata dal decreto stesso tramite l’introduzione dell’obbligo di legge del rispetto di principi, limiti e regole in esso previsti e la contestuale sottrazione alla contrattazione collettiva di materie che il D.Lgs. 165/01 aveva in ultima istanza ad essa assegnato, costituiva una brusca frenata al processo di privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico.
Connettere retribuzione e progressioni di carriera alla qualità dell’azione amministrativa, con particolare riguardo al grado di soddisfazione del cittadino, aveva lo scopo di sensibilizzare al perseguimento dell’interesse collettivo e quindi ad una maggiore produttività il mondo del pubblico impiego italiano, passato dalla condizione di semi-militarizzazione propria dell’epoca fascista, alla condizione di massa elettorale da controllarsi tramite la garanzia assoluta del mantenimento del posto di lavoro in cambio di retribuzioni basse ed incrementate esclusivamente dall’anzianità di servizio. Una condizione le cui caratteristiche sono palesemente demotivanti, e quindi esattamente opposte a quelle necessarie per generare impegno e incentivare la prestazione lavorativa. Questi presupposti con le loro implicazioni “culturali” stanno alla base del sostanziale fallimento del tentativo di operare una virtuosa rivoluzione operato dalle norme di legge e contrattuali degli ultimi vent’anni. Anche il tentativo messo in campo a suo tempo dal neo Ministro Renato Brunetta quindi, muovendosi su un terreno sostanzialmente immutato, stante la difficile modificabilità di quelle due condizioni (inamovibilità e basse retribuzioni), pur in presenza della previsione di licenziamento almeno per le infrazioni più gravi e dell’introduzione di nuove forme di premialità, avrebbe avuto non molte chances di immediato e concreto successo. Chances che furono comunque pressoché azzerate dalla successiva approvazione della manovra finanziaria 2010 di cui al D.L. 78/2010 convertito in Legge 122/2010 e, poi, da tutte quelle succedute nel corso degli anni. Non si vede, infatti, quali risultati ci si potesse attendere sotto l’aspetto motivazionale da un apparato pubblico le cui retribuzioni venivano congelate ope legis per anni e le cui progressioni di carriera avevano effetti unicamente giuridici e mai economici. A ben vedere si è addirittura formalizzata, con questi provvedimenti, la precedente situazione di fatto che stava alla base della scarsa produttività del lavoro pubblico. Nel perseguire il contenimento della spesa pubblica il legislatore, in altri termini, ha rivelato la sua totale sfiducia nella possibilità di ottenere risultati in questa direzione tramite l’incremento della produttività della PA. O, quantomeno, la sua sfiducia nella possibilità di farlo tramite incentivi economici e di carriera per i dirigenti e l’intero apparato.
Ai tempi della riforma Brunetta non fu quindi difficile prevedere lo scenario in cui quanto prescritto dal D.Lgs. 150/2009 in termini di programmazione, controllo, valutazione e premialità avrebbe visto ancora una volta nei diversi enti un’applicazione solo formale. Una vera riforma che incida sull’organizzazione delle amministrazioni e sui comportamenti dei singoli dipendenti, per avviarsi fattivamente nel contesto italiano, ha bisogno di essere supportata da meccanismi incentivanti concreti e visibili e legati al rapporto risultato/carriera-retribuzione; meccanismi in grado di introdurre, tra l’altro, nella PA virtuosi meccanismi di competitività fra gli enti e fra gli stessi addetti. Difficile sperare in leve motivazionali diverse, in un Paese in cui, nella persistente assenza di una qualsiasi formazione civica del cittadino, stenta ancora ad essere compreso il significato di espressioni quali “etica pubblica” o “senso dello Stato”.
Vedremo ora le intenzioni di Renato Brunetta, tornato Ministro della Pubblica Amministrazione con il Governo Draghi, il cui programma prevede fra le riforme chiave proprio quella della Pubblica Amministrazione. Sicuramente Brunetta avrebbe voluto muoversi, fin da allora, nell’ambito di una riforma più complessiva. Culturale, anzitutto, e che puntasse al raggiungimento degli obiettivi anziché al mero rispetto formale.
Giancarlo De Maria
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