Francesco Verbaro, Docente SNA Scuola Nazionale dell'Amministrazione
Il welfare state è la forma di Stato che ha caratterizzato gli stati nazionali europei ed occidentali nel ‘900, come forma di democrazia compiuta e sostanziale volta a rimuovere le ineguaglianze e a realizzare una partecipazione effettiva alla vita sociale, economica e civile. La crisi delle istituzioni e delle amministrazioni pubbliche rischia di travolgere proprio questa forma dello Stato. Il welfare state sembra entrare in crisi non solo per la crisi fiscale e dei bilanci pubblici, ma anche a causa di una crisi di efficienza ed efficacia delle istituzioni e delle amministrazioni. Dedicare attenzione al welfare state e al ruolo delle amministrazioni pubbliche, è il modo migliore per rilanciare un progetto concreto di ridisegno dello Stato e di reinventing government, secondo principi di efficienza ed efficacia. D’altronde il ruolo della PA, nella nostra Costituzione poggia soprattutto nel comma 2 dell’art. 3, quando si dice che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Quali sono gli “ostacoli” di oggi? Come rimuoverli? Quale il ruolo del pubblico, dei corpi intermedi e del singolo?
Contesto e scenari
Dalla fine degli anni Settanta il numero medio di figli per donna è sceso sotto a due, la soglia di equilibrio generazionale, per poi inabissarsi sotto 1,5 durante gli anni Ottanta, senza più riuscire a risalire oltre tale livello. Dopo il minimo pari a 1,19 toccato nel 1995, si era osservata una fase di crescita che si è però fermata nella fase più acuta della crisi economica. L’Italia si è trovata, di conseguenza, ad essere uno dei Paesi con maggior combinazione negativa tra: bassa natalità, alto rischio di povertà per le giovani famiglie con figli, bassa occupazione femminile, oltre che alta dipendenza dei giovani dai genitori e saldo negativo di laureati verso l’estero. Tutto questo entra in circuito vizioso con: le possibilità di crescita economica del paese, con la mobilità sociale e con l’inasprimento delle disparità di genere, generazionali, sociali e territoriali. Non a caso il Sud Italia è la parte del Paese entrata in maggior sofferenza anche dal punto di vista demografico, con difficoltà delle donne e dei giovani nel realizzare le proprie scelte di vita.
La grande recessione è intervenuta peggiorando un quadro già problematico e confermando ulteriormente quanto le condizioni economiche presenti e l’incertezza sul futuro pesino sull’assunzione di scelte di lungo periodo come la nascita di un figlio.
La crisi che ha attraversato il Paese è stata particolarmente profonda e lunga. L'Italia è uscita dalla recessione nel 2014 ma il ritmo di incremento del PIL non ha permesso ancora di raggiungere i livelli precrisi. Il calo dell'occupazione è stato più forte per gli uomini, ma le donne hanno comunque scontato il peggioramento della qualità del lavoro e la sempre maggiore difficoltà di conciliazione dei tempi di vita, testimoniata dall’aumento della percentuale di donne che interrompono il lavoro per la nascita dei figli. Sempre in tema, deve registrarsi l’aumento del part time ma quasi completamente nella sua componente involontaria.
Occorre inoltre ricordare la diminuzione della spesa sociale per servizi all'infanzia da parte dei Comuni e la bassa e sperequata diffusione dei nidi sul territorio nazionale, con il Sud che presenta livelli di copertura critici.
Non è un caso che il nostro Paese sia allo stesso tempo quello con più alto numero di under 30 che dopo gli studi non riescono ad entrare nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet) e quello con fecondità crollata maggiormente prima dei 30 anni. Secondo le previsioni centrali prodotte dall’Istat nel 2011 (quindi già in piena crisi) il numero medio di figli per donna nel 2016 avrebbe dovuto essere pari a 1,44, mentre il dato vero è stato notevolmente più basso, pari a 1,34. Le nascite complessive avrebbero dovuto essere pari a 531 mila, sempre secondo le previsioni, ed invece sono state pari a 474 mila.
Nel 2012 i nati sono stati circa 40 mila nel mese più basso e 51 mila in quello più alto. Nel 2016 il massimo è sceso a 45 mila, ad agosto, e il minimo a 33 mila, ad aprile. La crisi economica ha congelato le decisioni di coppie che oramai hanno superato i 35 anni. La denatalità se persistente nel tempo, come accade all’Italia, va a ridurre l’asse portante della vita riproduttiva e attiva del paese, accentuando ancor più il declino demografico e indebolendo la crescita economica. Nei prossimi quindici anni perderemo quasi 1,5 milioni di under 25 e oltre 4 milioni tra i 25 e i 55 anni, mentre crescerà di oltre 3 milioni la popolazione over 65. La Germania, che ha un problema di denatalità (quindi anche di invecchiamento) simile al nostro, proprio durante la crisi ha deciso di investire in modo massiccio sui servizi per l’infanzia, producendo in pochi anni una convergenza verso i valori medi europei.
Se guardiamo alle dinamiche ancor più recenti, ovvero all’andamento della natalità negli ultimi anni, si nota come i figli dei residenti stranieri abbiano consentito di contenere la caduta delle nascite italiane ma è altresì vero che il loro apporto risulta sempre più insufficiente. Nonostante tale contributo il 2016 è stato, del resto, l’anno con il record negativo di nati in Italia dall’Unità ad oggi.
Questi dati, nel complesso, mostrano come con frontiere chiuse gli squilibri demografici risulterebbero oggi molto più accentuati, ma evidenziano anche come l’immigrazione sia rimasta largamente al di sotto rispetto a quanto teoricamente servirebbe per riequilibrare la composizione per età della popolazione italiana.
Questo deficit demografico, prodotto dalla denatalità e solo parzialmente compensato dai flussi migratori netti, rischia di pesare negativamente sul nostro futuro più del debito pubblico.
Un aspetto di particolare attenzione che merita di essere segnalata è la cosiddetta “trappola demografica”. Quando la fecondità rimane a lungo su livelli molto bassi si innescano meccanismi che portano ad un riadattamento strutturale verso il basso se non controbilanciati da politiche adeguate a sostegno della ripresa. In particolare, quando la natalità rimane a lungo persistentemente bassa, come nel caso italiano, va ad erodere anche la base delle potenziali madri. Nei prossimi anni usciranno sempre più dalla fase riproduttiva le abbondanti generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta, per essere sostituire da quelle molto più “leggere” nate dopo la metà degli anni Ottanta. Questo significa che se anche il numero medio di figli per donna rimanesse costante, il numero delle nascite andrebbe comunque a diminuire perché le madri sono via via sempre di meno.
Guardando ai dati sintetici delle dinamiche degli ultimi anni con riferimento alla spesa per prestazioni sociali in denaro, va notato evidenzia, a livello complessivo, il rallentamento della dinamica dell’aggregato di spesa in esame nel periodo 2010/2016. Tale rallentamento della dinamica di spesa, peraltro programmato nei documenti di finanza pubblica, risulta evidente confrontando il periodo 2010-2016 (tasso di variazione medio annuo pari a circa il 2,1%, prendendo a base l’anno 2009) con il decennio 2000-2009 (tasso di variazione medio annuo pari a circa 4,4%, prendendo a base l’anno 1999) e a maggior ragione con il quadriennio precedente 2006/2009 (tasso di variazione medio annuo pari a circa 4,7%, prendendo a base l’anno 2005). In considerazione della dimensione dell’aggregato in esame (la spesa per prestazioni sociali in denaro costituisce, per il complesso delle amministrazioni pubbliche, circa il 50 per cento della spesa corrente al netto degli interessi alla fine del periodo in esame) tale riduzione della dinamica registrata nel periodo 2010/2016 ha contribuito in modo significativo al contenimento della dinamica della complessiva spesa delle pubbliche amministrazioni e, conseguentemente, al processo di progressiva stabilizzazione della finanza pubblica e conseguimento dei relativi obiettivi.
Con particolare riferimento alla spesa pensionistica emergono analoghi andamenti. A fronte, pertanto, di un processo "naturale" che tende a sostituire pensioni più basse con pensioni più elevate d'importo (non risentendosi ancora, se non in limitata misura, della modifica recata dall'introduzione del metodo di calcolo contributivo, la cui incidenza sulle pensioni erogate è stata di fatto insignificante fino al 2012 e ha inciso su quelle decorrenti da quell'anno soltanto pro rata, sulla base della riforma Fornero), lo sforzo del decisore politico per contenere la dinamica di crescita dell'aggregato pensionistico si è concentrato, lungo una linea di tendenza non priva di ripensamenti e correzioni, sull'introduzione di meccanismi volti di fatto ad innalzare l'età effettiva di pensionamento, da ultimo stabilizzati, sia pur con eccezioni, nell'eliminazione della pensione d'anzianità come trattamento spettante al conseguimento di un'opportuna combinazione di età anagrafica e contributiva e nel progressivo adeguamento dei requisiti richiesti alle crescenti aspettative di vita. Il complesso di deroghe a tale processo, che – unitamente ai limiti alla perequazione automatica – rappresenta tuttora il fulcro delle politiche di contenimento della spesa pensionistica, è certamente ampio (si va dalle tutele per i cd esodati alle agevolazioni per i lavoratori precoci, disagiati od usurati, alle alternative concesse alle donne a determinate condizioni), ma non ha significativamente inciso sugli obiettivi perseguiti.
In rapporto al PIL, la spesa pensionistica si è stabilmente collocata intorno al 13-13,7% fra il 1999 e il 2008. Pur mantenendo, come detto, la spesa pensionistica un apprezzabile grado di stabilità come aggregato in valore assoluto, il rapporto sul PIL peggiora negli anni seguenti esclusivamente a cagione del deterioramento del PIL, che decresce in conseguenza della crisi innescata nel 2008. Ne è scaturito un progressivo avvicinamento del rapporto al 15% fra il 2009 e il 2011, un ulteriore aumento fino a sfiorare il 16% nel 2013, per poi iniziare lentamente a ripiegare verso il basso di 0,1 p.p. annui a partire dal 2014, in virtù dell'ulteriore contenimento della crescita dell'aggregato monetario e del più vivace andamento del PIL.
Per quanto riguarda le prospettive, per il 2017 sono pienamente confermate le tendenze registrate negli ultimi anni, mentre un andamento più sostenuto della crescita dei trattamenti pensionistici è atteso nel triennio successivo, in virtù degli interventi agevolativi introdotti e dell'accesso al pensionamento – con trattamenti più elevati – dei soggetti che hanno risentito negli ultimi anni del processo di spostamento in avanti dell'età pensionabile. Accompagnandosi tali dinamiche ad una più favorevole crescita del PIL, il rapporto della spesa pensionistica con la ricchezza nazionale dovrebbe comunque stabilizzarsi intorno al 15,4%, pertanto, in ulteriore, sia pur marginale, calo.
Nel medio-lungo termine, a fronte di tensioni che si registreranno quando la generazione dei baby-boomers (i nati nel 1945-1964) sarà rappresentata quasi esclusivamente da percettori di pensioni, l'andamento sostenibile della spesa pensionistica è assicurato all'Italia dal passaggio generalizzato al sistema di calcolo contributivo, che dovrebbe stabilizzarla su valori ampiamente gestibili, nel presupposto che si verifichino gli scenari-base in termini demografici e di produttività scontati dagli istituti di previsione nazionali ed europei. Va ricordato, a tal proposito, che gli indici di sostenibilità della finanza pubblica italiana, come anche il debito implicito (cioè il debito pubblico valutato considerando anche le future prestazioni pensionistiche nella misura in cui le relative obbligazioni di fatto maturano in capo agli enti previdenziali), risultano fra i più virtuosi nell'ambito dell'Unione europea.
La tenuta di questa come di altre voci della spesa pubblica dipenderà naturalmente dall’andamento del dato del PIL, che ha mostrato come l’Italia è il paese che soffre di più in fase di crisi e che ha al contempo la ripresa più debole. Al di là dei tagli alla spesa degli ultimi anni, sempre generali e lineari, non è stato affrontato il tema della qualità e della produttività della spesa.
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Sulle altre voci di spesa notiamo un forte sottodimensionamento, con particolare riferimento alla spesa per servizi sociali e servizi per il lavoro. Anche il tema immigrazione, che richiederebbe una strategia Paese viene affrontato più in termini di emergenza e di sicurezza e non in termini di integrazione. Mentre con riferimento alla spesa sanitaria continua la crescita della spesa per il secondo pilastro e per l’out of pocket. Il nostro si caratterizza sempre di più come un welfare monetario e tradizionale, fondato su erogazioni e su forme tradizionali di protezione, e quindi sempre più debole e inadeguato rispetto alle nuove istanze. Non potendo la PA organizzare di sana pianta alcuni servizi e avendo vincoli finanziari e organizzativi (eccessiva rigidità nella riorganizzazione dei servizi e del lavoro).
Il diritto al lavoro e il lavoro che si trasforma
Ancora più importante la sfida che ci deriverà dalle trasformazioni nel mercato del lavoro. Avremo meno lavoro tradizionale, ma dovremo saper intercettare la nuova domanda di lavoro. Ci sarà meno lavoro e quindi maggiori problemi di inclusione e di rischio povertà. L’occupabilità delle persone lungo l’intero arco di vita non potrà essere assicurato con le leggi che obbligano ad assumere a tempo indeterminato, ma con forme di protezione nuove che intervengano durante le transizioni tra un lavoro ed un altro da un cambiamento ad un altro. Servizi come la formazione continua, l’orientamento, il placement diventeranno essenziali per affrontare le diverse sfide che riguarderanno il lavoro. Non potranno essere gli attuali centri per l’impiego le strutture che potranno farsi carico di tali compiti. Occorrerà, sotto un monitoraggio ed un controllo pubblico, far affidamento su enti bilaterali, soggetti privati, imprese che potranno offrire i nuovi strumenti di protezione contro l’inattività e l’esclusione lavorativa. Tutte le forme di sostegno al reddito o di reddito di cittadinanza avranno bisogno di sistemi informativi e di presa in carico che non lascino sole le persone e al contempo ne favoriscano un comportamento responsabile.
Mentre ancora lo Stato non riesce a collegare Inps, regioni, centri per l’impiego ed agenzie per il lavoro, il settore privato con Facebook, Linkedin ed altre piattaforme riesce a far incontrare in maniera trasparente, efficiente ed efficace domande ed offerte collocate in posti diversi del pianeta.
Un lavoro che non sarà solo e sempre subordinato, ma sempre più autonomo e con forme di indipendenza e flessibilità che vanno a scardinare tempo e luogo della prestazione. Un lavoro che sarà sempre meno a tempo indeterminato, subordinato e full time e che comunque cambieremo spesso. Incertezza, che richiederà forme di sostegno e supporto che oggi, in Italia, non abbiamo.
Anche in questo settore del welfare, registriamo un eccesso di fiducia nelle norme e una scarsa attenzione verso i servizi.
La differenza la farà la formazione. La formazione continua dovrà essere la forma di welfare to work più utilizzata, perché più efficace con misure di reskilling e upskilling.
Criticità/Priorità
I dati economici e i flussi demografici delineati dallo scenario di riferimento sopra riportato evidenziano quindi delle tendenze consolidate preoccupanti per il presente ma, specialmente, per il futuro. In assenza di cambiamenti strutturali, si assisterà ad un costante calo della popolazione attiva, ovvero dei potenziali lavoratori, dovuto alla sempre crescente diminuzione delle nascite e al conseguente invecchiamento della popolazione, con evidenti ed immediati riflessi sulla produttività, sui conti pubblici e sulla spesa previdenziale e, in ultima analisi, sul PIL nazionale. In questo contesto non deve essere trascurato l’aumento della domanda di servizi di carattere sociale che il quadro demografico, ivi compresa la diversificazione e la frammentarietà delle famiglie, porta con sé.
Dal punto di vista del mercato del lavoro si assisterà a carriere professionali sempre più frammentate ed esposte a fenomeni repentini di obsolescenza delle competenze. Avremo periodi di disoccupazione e riduzione del reddito, cui potrà porsi rimedio solo con una formazione continua ed un welfare to work adeguato alle sfide dell’economia e dei cambiamenti tecnologici. Ciò avrà effetti anche in termini previdenziali, rispetto all’adeguatezza delle pensioni.
Le sfide demografiche e quelle provenienti dal mercato del lavoro porteranno necessariamente ad un ripensamento dell’attuale modello di Welfare State italiano, non adeguato a rispondere ai mutati e mutevoli fabbisogni della società e dei singoli. La complessità dei nuovi scenari deve indurre a ripensare le modalità dell’intervento pubblico e, di conseguenza, la ridefinizione del modello di PA, che dovrà garantire la piena capacità di prendere in carico i diversificati bisogni della collettività o di attivare soluzioni sussidiarie anche responsabilizzando i singoli individui.
Il mondo della formazione pubblico, sia quello degli enti regionali sia quello dei fondi interprofessionali, dovrà essere rivisto secondo logiche di qualità e di selettività. Su questi ambiti il settore pubblico ha svolto meri controlli formali, senza alcun controllo sulla qualità e sui risultati della formazione in termini di placement.
La crescita delle forme di welfare di secondo pilastro ed assicurative, fenomeno positivo di per sé, può costituire una facile scorciatoia e una forma di ripiego rispetto alla crisi e all’inefficienza del primo pilastro pubblico. Il rischio è quello di favorire l’abbandono del pilastro pubblico e di lasciare scoperte fasce della società che non hanno lavoro o lavoro tradizionale e quindi la copertura del secondo pilastro. Inoltre, la crescita dell’out of pocket, sia in sanità sia con riferimento ai servizi di long term care e sociali, porterà ad aumentare la diseguaglianza e la qualità della vita.
Proprio partendo dal welfare state, occorrerà avere un approccio pragmatico, fondato sulle priorità e non sulle ideologie. Le domande guida quindi sono: cosa dovrà fare il pubblico nei prossimi anni? Cosa potrà realisticamente fare? E come?
Proposte
Rispetto alle politiche per la famiglia, occorre considerare il sostegno alla natalità non solo al momento della nascita ma anche per tutto il percorso genitoriale (si pensi al tema della conciliazione, persistente sino all'autonomia della prole e che condiziona certamente anche la programmazione della vita e della consistenza del nucleo famigliare). Occorre riflettere sull'opportunità e utilità di persistere a confinare le politiche a favore delle famiglie a dispositivi, non sempre strutturali, di carattere economico e sostegno al reddito (c.d. bonus e simili (assegni, premi, contributi)), la cui entità finanziaria, non sempre connessa alla situazione economica dei beneficiari e comunque limitata temporalmente ad un arco di vita definito della prole, non appare tale da favorire con sicurezza una favorevole propensione alla natalità e genitorialità.
Il sostegno alla natalità, reso urgente dagli allarmanti dati degli ultimi tre anni, deve fondarsi su una relazione virtuosa tra scelte di formazione della famiglia, occupazione femminile, benessere infantile. Emerge chiaramente la necessità di ampliare l'ambito e gli strumenti, spostando l'attenzione dal sostegno diretto di carattere finanziario, limitato nel tempo e nell'entità, al potenziamento durevole e permanente dei servizi di sostegno alle famiglie, a partire dalle strutture di conciliazione e dall'accesso al sistema delle scuole dell'infanzia sino a definire agevolazioni fiscali, politiche tariffarie, condizioni di accesso al credito et similia in grado di garantire, anche attraverso forme di collaborazione pubblico – privato, un ambiente sociale ed economico finalizzato all'aumento della natalità e a garantire alle famiglie condizioni stabilmente favorevoli allo scopo.
È necessario che tali misure non emergano singolarmente ma da un Piano di interventi di carattere programmatico, di medio-lungo periodo, frutto anche di studi comparati sulle esperienze degli altri Paesi UE, che unisca e renda sinergiche le politiche economiche e del lavoro, le politiche giovanili, e le politiche familiari ed educative, frutto della collaborazione tra il Governo centrale e i sistemi regionali e locali, oltreché del coinvolgimento del mondo privato (associazionismo, imprese) sotto forma consultiva e/o partenariale.
La cura della persona sarà una funzione strategica: sia in termini di salute, attraverso la prevenzione e una buona sanità; sia in termini di qualità della formazione, con una scuola ed università moderne e proiettate verso il futuro e l’innovazione.
Sotto il profilo della governance, e quindi del funzionamento degli apparati pubblici coinvolti, la proposta avrebbe anche il pregio di favorire il superamento delle disomogeneità territoriali che l'attuale sistema dei bonus genera a seconda della residenza dei beneficiari, considerando la diversità delle condizioni di accesso stabilite a livello nazionale rispetto a quelle poste dagli enti territoriali per le proprie e corrispondenti misure, nonché alla medesima diversità tra gli strumenti predisposti dai diversi territori.
In ogni caso, la delicatezza degli scenari e la criticità delle attuali prospettive richiedono una PA centrale “forte”, in grado di garantire i cambiamenti governandoli, di intercettare i bisogni e di intervenire o far intervenire con misure efficaci, di programmare e concentrare le risorse ad ogni livello evitando duplicazioni e sprechi, garantendo coordinamento e collaborazione con le PPAA territoriali anche per favorire l’omogeneità degli interventi e delle prestazioni su tutto il territorio nazionale, intervenendo sugli squilibri e i divari territoriali.
E’ necessario che la Pubblica Amministrazione sia sempre meno burocratica e certificatrice, orientata piuttosto alla conoscenza e alla previsione dei fenomeni e all’attivazione delle opportune e conseguenti misure, evitando interventi pubblici frammentati e inefficaci attraverso il collegamento tra le banche dati pubbliche, l’utilizzo dei big data amministrativi, e costruendo, quindi, pilastri informativi in capo alla PA centrale ed accessibili a tutte le Amministrazioni che erogano servizi di welfare.
La forte regia dell’apparato pubblico comporterà anche nuovi rapporti con il settore privato, non più in termini di “delega permanente” ed abbandono sostanziale ma di cooperazione e partenariato orientati al rafforzamento dell’efficacia degli interventi. Il processo di progressiva qualificazione della Pubblica Amministrazione non può prescindere anche da una profonda rivisitazione dei sistemi ora utilizzati per rispondere a esigenze temporanee di determinate professionalità e di fornitura di specifici servizi.
Il ricorso all'appalto di servizio che si stima interessi oltre 300mila lavoratori risulta censurabile sotto differenti profili. Non consente di acquisire le migliori professionalità e competenze per quella determinata attività, nasconde assai spesso una vera e propria somministrazione di lavoro erogata in maniera truffaldina da operatori non abilitati.
La qualificazione della Pubblica Amministrazione, pertanto, passa attraverso la garanzia per chiunque svolga attività, anche in via indiretta, per il Pubblico di avere i diritti e le tutele previste dall'ordinamento e trova migliore corroborante nella interazione con soggetti abilitati a offrire quei servizi per il lavoro e capaci, per evidenza empirica, di offrire un sistema di ricerca tra le candidature, selezione del personale e somministrazione di lavoro in linea con gli obiettivi del committente.
In questo senso, la Pubblica Amministrazione dovrà dotarsi di competenze qualificate per i servizi di welfare e non di sole competenze amministrative, introducendo in fase di reclutamento e di formazione profili e percorsi professionali adeguati. Ugualmente, devono essere introdotti sistemi di monitoraggio e verifica dell’efficacia degli interventi, non di tipo burocratico e amministrativo, ma volti a verificare l’utilità dell’intervento e della policy nonché i risultati della spesa pubblica, considerando che il federalismo amministrativo e costituzionale creato dal 1997 in poi, in assenza di LEP e di controlli sull’efficacia, proprio nell’ambito delle politiche di welfare, ha prodotto spesa senza risultati.
Per i fini sin qui descritti occorre, in conclusione, una Pubblica Amministrazione smart ma non “minima”, fondata sul miglioramento delle competenze e che agisca secondo nuovi modelli di flessibilità organizzativa e gestionale, in grado di governare i cambiamenti e i processi di innovazione conseguenti agli scenari delineati e alle criticità evidenziate.
Due grandi sfide deve saper cogliere la PA italiana sul fronte del welfare state:
- Digitalizzare l’erogazione dei servizi pubblici;
- I vincoli del budget e il rapido tasso del cambiamento tecnologico comporta che i Governi non debbano solo fornire servizi più efficacemente ed efficientemente ma anche dare priorità ai bisogni del cittadino.
Dal punto di vista dell’organizzazione delle istituzioni e delle amministrazioni, una maggiore efficienza ed efficacia si può e si deve perseguire attraverso:
- Una profonda riorganizzazione delle funzioni e delle competenze tra i diversi livelli di governo;
- L’introduzione effettiva e diffusa di strumenti e flessibilità tipiche dell’organizzazione privata;
- Una conoscenza degli ambiti e dei target di intervento pubblico, attraverso i big data pubblici, per migliorare efficienza ed efficacia degli interventi;
- Un utilizzo coordinato di sussidiarietà, esternalizzazioni e delle leve fiscali per coprire fabbisogni specifici e in continuo cambiamento e ridurre ridondanze e sprechi. Il pubblico pubblico non è più in grado di erogare direttamente servizi, ma dovrà consentire a tutti, rispetto ai relativi bisogni, di accedere.
Se non si interviene subito dovremo decretare la fine del welfare state senza riuscire a coprire ampi strati della società, lasciando sempre più soli i singoli individui e abbandonando il Paese verso una deriva demografica e di crisi sociale già oggi allarmante.
Proprio sulla riforma e sull’adeguamento del welfare state si gioca gran parte del ridisegno del settore pubblico e della sua “utilità”.